Può una democrazia esistere senza partiti?

Mentre il governo Draghi inizia la sua attività in un clima di speranzosa attesa, può essere utile riflettere su alcuni temi che necessitano di approfondimenti, modifiche o semplicemente di aggiornamenti.

In un precedente editoriale avevo accennato alla necessità di un momento costituente che consenta di meglio definire i rapporti tra i poteri dello Stato (governo, parlamento magistratura), necessità resa più urgente dal taglio dei parlamentari e conseguente ridisegno del parlamento come anche dalle rivelazioni sulla magistratura fatte dall’ex magistrato Luca Palamara.

La domanda che ora mi pongo: è possibile una democrazia senza i partiti?

La forma tradizionale del partito politico che ha accompagnato la nascita della Repubblica e il suo sviluppo è stata spazzata via dalla crisi di tangentopoli, anche se gli osservatori più attenti ne avevano già sottolineato il crescente distacco dalle attese della società.

La lettura della politica italiana in termini esclusivi di partitocrazia o di casta ha inquinato il dibattito e diviso l’Italia tra buoni e cattivi essendo questi ultimi i politici, quasi senza differenze, e i buoni tutti gli altri.

In questa divisione si sono inseriti a vario e diverso titolo i populismi, i sovranismi fino al sorgere di un movimento, sostenitore accanito dell’uno vale uno e della democrazia diretta, che voleva aprire il parlamento come una scatola di sardine.

Di questo processo stiamo pagando tutti il pesante prezzo in termini di crisi economica, di difficoltà ad affrontare la pandemia, di crescente sfiducia nelle istituzioni.

Occorre ritornare alla Costituzione che all’articolo 49 recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» indicando così nei partiti lo strumento ordinario della vita democratica, poiché quello di liberamente associarsi è uno dei valori alti della Costituzione richiamato anche dall’art. 18, «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale».

Queste citazioni servono per collocare il tema dei partiti nel suo giusto contesto: non possono gli errori e le deviazioni cancellare l’essenziale libertà dei cittadini di associarsi per contribuire alla vita sociale e politica del Paese: ne va della democrazia stessa.

Dopo tangentopoli il discredito gettato sui partiti (certo anche per colpa propria, ma molto per ben definiti interessi mediatici e/o finanziari) ha lasciato credere che quella funzione potesse essere esercitata da movimenti a carattere personalistico, come si usa dire “leaderistici”.

In quest’ottica negli anni si sono mutati i sistemi elettorali ma è rimasta sempre esclusa la possibilità per gli elettori di scegliere non solo il partito per cui votare ma anche la persona da eleggere. Il sistema delle preferenze è stato oggetto di feroci critiche e addirittura di demonizzazione da parte dell’opinione corrente.

Per la selezione dei candidati sono stati così abbandonati i criteri di capacità personali e di attrattività di consensi per privilegiare la fedeltà al capo e alla sua cerchia ristretta. Il risultato è un parlamento in cui le migrazioni da un gruppo a un altro hanno raggiunto numeri mai prima neppure sfiorati, il livello culturale di molti eletti è oggetto di ironie e sbeffeggiamenti sui social e nei talk mentre la partecipazione alle elezioni, avvertita come sempre meno importante, è costantemente in calo.

Al momento non sono in vista cambiamenti della situazione e la conseguenza è stata quella di costringere i partiti a un passo indietro e ad accettare la supplenza di Draghi.

Per fare un passo avanti è ancora la costituzione che ci può aiutare. Nell’art. 2 in cui è riconosciuto il ruolo fondamentale delle formazioni sociali (in cui possiamo ricomprendere anche i cosiddetti corpi intermedi tanto dimenticati dalla politica di questi anni) si ricorda anche che «la Repubblica chiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ecco un buon criterio per sentirsi cittadini di una medesima nazione e diventarlo realmente; ma sembra essere un criterio che non sta troppo a cuore alla politica visto il clima che ha preceduto la nascita del governo. Per affrontare con qualche speranza di vittoria le grandi sfide che abbiamo davanti è indispensabile riconoscersi come appartenenti ad uno stesso popolo. Nelle differenze, certo, ma anche nella solidarietà complessiva come ammonisce e chiede la Costituzione.

Grande sfida, questa, che può essere affrontata solo da uomini capaci di rispettare opinioni diverse e di confrontarsi nella ricerca delle soluzioni maggiormente condivise.

In questo compito mi sembra che l’Italia paghi pesantemente l’assenza dalla scena politica di un popolarismo di stampo sturziano così come quella di un’area laica, socialista e riformista capaci di guardare al futuro con una visione analoga a quella che fu dei padri costituenti.

In quello che si usa definire mondo cattolico sono in atto diversi tentativi, per quanto iniziali, di riallacciarsi in modo nuovo alla tradizione popolare e democristiana, anche se non sembrano avere il respiro necessario per diventare protagonisti sullo scenario nazionale.

Con i cattolici divisi tra diverse appartenenze ecclesiali prima ancora che partitiche, al dibattito politico attuale manca il contributo di una cultura ispirata dalla dottrina sociale cristiana. E non è mancanza da poco.

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